domenica 1 maggio 2011
Riflessioni dal passato: Epicuro, Lettera a Meneceo sulla felicità
"Caro Meneceo, sappi che la conoscenza della felicità non richiede un'età precisa, perché a qualsiasi età è piacevole prendersi cura della propria vita. Chi sostiene che non è ancora giunto il tempo di dedicarvisi, oppure che oramai è troppo tardi, crede che il momento giusto per farlo è alle nostre spalle oppure davanti a noi.
Al contrario, conoscere la felicità riguarda sia il giovane, sia l’anziano: il secondo per trarne benessere dal caro ricordo di ciò che ha realizzato, il primo per trarne forza e nutrimento e prepararsi a non temere il futuro.
Ti mostrerò, dunque, quello che bisogna fare per ottenere la felicità, perché la sua presenza soddisfa la nostra vita, mentre la sua assenza ci spinge a fare di tutto per ottenenerla. Rifletti sulle cose che ti raccomando e, allo stesso tempo, mettile in pratica: sono fondamentali per una vita ben realizzata.
Prima di tutto, allora, considera che la vita divina è eterna e felice, come suggerisce la comune idea che abbiamo di dio: ogni divinità possiede una vita infinita e sempre felice. Va da sé che non ci sono dubbi sull’esistenza degli dei, ma le divinità non sono come le credono molte persone, che così facendo mettono in dubbio o tradiscono le loro stesse certezze più profonde. Ricordati che non è empio e irriverente chi rifiuta la religione popolare, ma chi attribuisce agli dei le convinzioni errate della gente comune. Questi giudizi sono false opinioni, perché di volta in volta attribuiscono agli dei la causa o delle più grandi sofferenze o dei beni più straordinari. In realtà, Meneceo, gli dei sono assolutamente felici e mostrano di riconoscere la somiglianza con le persone piene di virtù, quanto di mantenere la distanza da chi ne è completamente privo.
In secondo luogo, abituati Meneceo a pensare che la morte non è nulla per noi, perché le sofferenze o i piaceri si acquisiscono con i sensi; la morte, invece, non è altro che l’incapacità di avere coscienza.
La consapevolezza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, scacciando l’inganno del tempo infinito che è provocato, invece, dal desiderio della immortalità. Non c'è nulla di terribile nel vivere per chi sa che non c'è nulla da temere nel non vivere più. Perciò è stupido chi sostiene di aver paura della morte, perché egli non teme la sofferenza al suo arrivo, ma piuttosto lo affligge la continua attesa di morire. E’ strano: quello che non ci turba, una volta presente, è condannato a portarci alla pazzia se è atteso in modo irrazionale.
Invece, vedi Meneceo, la morte – considerata il più atroce di tutti i mali – non esiste per noi. Quando noi viviamo, la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo più noi.
Dunque, la morte non è nulla per noi, che siamo vivi, né per i morti, che non sono più.
Invece, la gente comune fugge la morte come il peggior male, oppure la invoca come un luogo di pace rispetto ai mali che vive.
Nota, Meneceo, che il vero saggio ha piacere di vivere, così come non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere.
ll saggio si comporta come nel mangiare: come sceglie i cibi migliori e non le porzioni più grandi, così si realiza non perché vive a lungo ma perché trascorre delle dolci giornate.
Alcuni invitano il giovane a vivere bene e il vecchio a morire bene, ma questo è di nuovo sciocco non solo per la dolcezza che la vita sempre riserva – anche da vecchi - ma anche perché una bella vita ed una bella morte fanno parte dello stesso stile di comportamento. Altri, ancora peggio, dicono che è meglio non nascere per niente, oppure, una volta venuti al mondo, passare al più presto la porta dell'Ade. Se sono così convinti, perché allora non se ne vanno via da questo mondo? Se lo vogliono veramente, non glielo vieta nessuno. Se lo dicono così per dire, forse è meglio che cambino discorso. Ricordiamoci poi, Meneceo, che il futuro sì ci appartiene, ma solo in parte.
Solo così possiamo aspettarci che non si realizzi completamente tutto ciò che vogliamo, ma anche sapere che dobbiamo svolgere la nostra parte. Così pure teniamo presente che solo alcuni desideri sono naturali e profondi, mentre molti altri invece sono inutili; e fra i naturali solo alcuni sono bisogni necessari. Alcuni di questi sono fondamentali per la felicità, altri invece per il benessere fisico, altri ancora per la stessa sopravvivenza.
Una conoscenza attenta dei desideri guida ogni nostra scelta, come ogni nostro rifiuto, al fine di raggiungere il benessere del corpo e la perfetta serenità della mente.
Le cene e le feste, il godimento con i fanciulli e le donne, i buoni pesci e quanto può offrire una ricca tavola non portano la dolcezza della vita felice. Questo lo porta il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che provocano un rovellio profondo. In realtà, Meneceo, il principio e bene supremo nella condotta è la saggezza, che appunto guida la stessa filosofia, madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non c’è vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta che sia priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.
Considera, Meneceo, che vi è rispetto e ammirazione per chi ha un’opinione corretta e rispettosa degli dei, per chi non ha paura della morte e ha chiara coscienza del senso della natura, per chi ritiene che beni utili si procurano facilmente; infine per chi ritiene che i mali che affliggono profondamente la persona, lo fanno per poco, altrimenti se lo affliggono a lungo vuol dire che si possono sopportare. Questo genere d’uomo sa anche che è stupido credere che il fato sia padrone di tutto, come pensano alcuni; le cose accadono o per necessità, o per volontà della fortuna, o per volontà nostra. Se la necessità è irresponsabile e la fortuna instabile, invece la nostra volontà è libera: per questo può meritarsi lode o biasimo.
Al posto di essere resi schiavi del destino dei materialisti, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placare la divinità con le preghiere, invece di quest'atroce, inflessibile Necessità.
Al contrario la fortuna per il saggio non è una divinità come per la gente comune – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Il saggio non crede che il caso arrechi agli uomini alcun bene o male determinante per la vita
felice, ma sa che la fortuna può avviare grandi beni o grandi mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi, piuttosto che fortunati e stolti; nella vita quotidiana, poi, preferisco che un bel progetto non vada in porto, piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.
Mi raccomando, Meneceo: rifletti, quando ti capita, di giorno oppure di notte, su quello che ti ho detto e su altre cose simili. Fallo da solo o con chi ti è vicino e sarai sempre libero dall'angoscia.
Vivrai come un dio tra gli uomini, perché l’uomo che vive tra i beni immortali non sembra più neanche mortale".
Epicuro(Samo 341 a. C. Atene 271 a.C.),
Lettera a Meneceo sulla felicità
Note:
Traduzione di Roberto Confessi in "L'attimo fuggente e la stabilità del bene", di Salvatore Natoli. Edup Ed.
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